tra artigianato e arte

Buondì pack, qui è QueerWolf e oggi vorrei ragionare con voi di narrazione e videogiochi.

Quando con LazyFox abbiamo deciso di creare owof, la prima cosa che ho fatto da bravə lupə da biblioteca è stata riempirmi di libri, e ho iniziato a leggere questa dissertazione di Aaron A. Reed. Nell’introduzione viene riportata una dichiarazione di Roger Ebert (critico cinematografico) che può essere ridotta a: una storia può essere arte quando il controllo è nelle mani dellə autricə. Il videogioco lə toglie l’agency sulla storia per darla allə giocatricə, e per questo non potrà mai elevarsi dal mondo dell’artigianato per diventare arte.

Il mio cervello si è fissato su questa riflessione per settimane. Si è piantata nella mia testa come qualcosa di stonato, un pizzicorio fastidioso che voglio risolvere con questo post. Premessa: userò storia e narrazione tenendo conto di tutti gli aspetti del videogioco, non solo il testo (per dire, anche Le Andande è una storia, ma non c’è mezza parola).

Beat, temi e incidenti al faro

Arrivo al mondo del videogioco con alle spalle qualche decennio di scrittura letteraria buona e cattiva, di riflessioni su cosa voglia dire fare narrativa, e molte letture.

Esistono sei quintilioni di miliardi di teorie su come scrivere un testo, su quali siano le regole basilari, ognuna coi suoi vantaggi e limiti.

Quando scrivo o rifletto su un’opera di fiction, per me centrali sono il tema (che risponde in due parole alla domanda: di cosa parla questa storia?) e la prospettiva autoriale (aka: cosa pensa l’autricə di questo tema?).

Il tema è come un faro che indica dove andare, la prospettiva autoriale è il perché. Il come dipende da un insieme di scelte consapevoli, ripensamenti e imprevisti, ma tutto andrà bene fintanto che resterò nel cono di luce del faro.

In Story, Robert McKee fa un’analisi interessante della struttura di una storia. Di nuovo, facendo una riduzione forzata per evitare pipponi: l’elemento più piccolo della storia, che McKee chiama beat, è il cambiamento minimo che può avvenire all’interno di una narrazione, un comportamento a livello di azione/reazione. Sopra al beat c’è la scena, che deve portare una trasformazione nella condizione esistenziale di un personaggio, in modo attinente al tema della storia. Sopra alla scena c’è la sequenza, a cui viene richiesto un cambiamento con un valore emotivo e di significato maggiore di quello della scena, così come il cambiamento espresso dall’atto deve avere un valore ancora maggiore di quello della sequenza, e la storia deve esprimere la variazione più elevata.

Si crea così una piramide legata all’intensità e al valore del cambiamento che vede alla base il beat e in cima la storia nella sua totalità. Oppure, tornando al nostro faro, più siamo lontanə dalla fonte più rarefatta sarà la luce che man mano, come l’intensità e la forza del tema, aumenterà quando finiremo per schiantarci contro alla natura della storia e del faro.

Semplificando, possiamo leggere una narrazione come un susseguirsi di eventi collegati da un tema comune (eventi che sono anche azione, i verbi di cui parla Anna Anthropy in A game design vocabulary). Questi elementi sono l’ossatura di una storia su cui possiamo poggiare descrizioni, dialoghi, eventi di raccordo e tutto quello che può dettare il tono, l’aspetto emotivo ed esperienziale. Lo vediamo benissimo quando abbiamo davanti remake, riletture, rivisitazioni: il Re Leone ricalca la struttura dell’Amleto di Shakespeare, e anche se i modi in cui le due storie vengono espresse sono diversi, l’ossatura è la stessa.

Per questo credo che Ebert sbagli, e si limiti ad osservare l’asfittica egomania dell’autricə invece di guardare l’ampiezza di prospettive che una storia racchiude sempre dentro di sé. Non vede un oceano, ma giusto una stradina piatta e noiosa della Bassa.

Quando scrivo un racconto, una volta che ho chiaro tema e prospettiva le scelte che ho a disposizione per costruire la storia sono limitate solo dalla mia fantasia, e influenzate principalmente da un mix di gusto, stile, irrazionalità, voglia di evocazione etc etc. Luoghi, oggetti, rapporti, le cose dette e quelle non dette, gli abbracci dati e i regali fatti sono tutte cose che si appoggiano sull’ossatura principale come se fossero pelle, capelli, occhi, vanno a creare unicità, ma che è una delle possibili unicità di quella storia.

Allə giocatricə quello che posso cedere è proprio questo blocco di elementi: se continuo a lasciare che il mare che ho davanti sia illuminato dal tema, posso tracciare una quantità di percorsi limitati solo dalla mia fantasia senza che la qualità della storia ne risenta. Starà allə giocatricə scegliere se muoversi in quelle acque con una barca, a nuoto, con uno scafandro o a cavallo di uno squaletto Haribo senziente.

esempio di autricə che segue la luce del faro 😅 

Un esempio pratico

In questi giorni insieme ad ASCARI ci stiamo rimettendo al lavoro sul nostro secondo progetto, non-binary. I testi e la storia attuali non cedono agency a chi gioca perché avendo avuto solo due giornate per lavorarci sopra, non ce la siamo sentitə di complicarci la vita. Ora che abbiamo più respiro, la prima cosa che ci siamo chiestə è stato proprio che tipo di scelte possiamo offrire alla giocatrice.

All’inizio mi son fattə prendere dallo sconforto: tema, prospettiva autoriale e contesto di non-binary si intrecciano per creare un margine di manovra di primo acchito limitatissimo. Centrale è il linguaggio e l’idea che senza un linguaggio per definirci non potremo star bene, e che il mondo fuori usa invece le parole che ha per soffocarci, ferirci, cancellarci (ma cancellarci davvero, non tipo l’onnipresente JKR).

E soprattutto, lə nostrə protagonista non sa nemmeno perché sta male, proprio perché non ha le parole per descriversi. Le scelte che ci colpiscono di più sono quelle che esprimono un cambiamento, ma per cambiare devo capire cosa c’è che non va e dove voglio andare, e allə nostrə Pallinə queste due informazioni mancano. Insomma: quando è partita l’idea della ristesura ero così:

Poi ho preso un respiro, e mi sono riaffidatə al tema. Il tema mi ha permesso di riflettere su quali possano essere delle situazioni tipo in cui questo emerge. Con LazyFox e ASCARI abbiamo deciso di continuare a tratteggiare (come nella versione attuale) momenti diversi della vita in modo da mostrare quanto il problema sia pervasivo (e no, non è solo “una fase”), aumentando la tensione gradualmente. Ogni momento affronterà un aspetto diverso del tema (es: linguaggio e scuola, linguaggio e famiglia, linguaggio e riflessione su di sé), e dato che l’aspetto dialogativo in questo gioco è centrale, faremo in modo di dare un valore allə personaggə che si presenteranno nel corso della storia.

In questo modo allə giocatricə verrà data la possibilità di fare scelte “espressive” (legate quindi al tono con cui vorrà reagire al contesto: cercherà di assecondare chi ha davanti perché è una persona di cui ha stima o per cui prova affetto? Rivendicherà invece il suo diritto ad essere sé stessə? Lo farà con rabbia? In modo diplomatico?) sia esplicitamente agenti (resterà vicinə a chi continua a limitarlə?), senza che la storia vada a ramengo o perda di solidità, perché comunque vada la luce del faro alla fine ci porterà a casa.

Conclusione

In realtà vorrei dire altre ennemila cose. La metafora del faro ha la pecca di dare l’idea che ci sia un solo punto di arrivo, cosa che ovviamente non è. Prima ancora che come pasticcionə di videogiochi, quando gioco adoro vedere le scelte che ho fatto portare a finali diversi (sì, parlo con te, Life Is Strange!). Mi piacerebbe più avanti tornare su cosa sia una scelta, sulla natura delle ramificazioni e via di seguito.

Probabilmente le considerazioni fatte fino a qui valgono il giusto. L’idea di questa parte di blogging sul sito di owof nasce dall’idea di fare un percorso con voi. Personalmente, la speranza è che venendo da un ambiente diverso da quello della programmazione o della sceneggiatura (cosa che accomuna moltə designer), col tempo possa portare una prospettiva utile al discorso.

Spero solo sia passato il perché ritengo che Ebert abbia torto: un videogioco ha la sua natura e i suoi obiettivi, le sue peculiarità e difetti, ma la cessione del controllo sulla storia non priva questa di valore, né ci toglie la possibilità di creare un prodotto artistico.

Paws up.

Alla prossima.

Queer Wolf

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