Vestiti a fiori e videogiochi

[disclaimer: questo post è stato scritto abbastanza di cuore e di getto da QueerWolf, che lo condivide con la speranza che stia in qualche modo in piedi]

Ho un lungo vestito giallo a fiori nell’armadio. È lì da settembre dell’anno scorso. L’ho indossato solo una volta, chiusə in casa con le tapparelle basse in un weekend in cui avevo la certezza che il mio coinqui se ne sarebbe stato dai genitori per due giorni.

Amo quel vestito, sicuramente ci penso almeno una volta a settimana da che l’ho comprato. A volte son lì che sento il bel caldo che fa ora, e mi chiedo come sarebbe bello uscire di casa indossandolo. L’aria fresca che lo solleva, che mi fa sentirə leggerə, fattə di vento. I miei modelli femminili di riferimento sono Anna Calvi e Florence Welch, e quel vestito è così Florence!

Ma come penso di indossarlo mi sento schifoso, con la O grossa grossa. Mi sento un mostro, sbagliato. È uno sguardo che viene da dentro a condannarmi, uno sguardo che ha una voce forte che proviene da fuori, dalla somma di tutte le voci che nel corso degli anni mi hanno detto che cosa è e cosa non è un uomo, e cosa è e cosa non è una donna. E che tutto quello che c’è nel mezzo fa schifo.

Per questo in non-binary Pallinə non recupera mai il suo colore dopo un colpo. Per questo le parole a lato si accumulano sempre, cadono come mattoni. Questa roba non te la togli mai di dosso.

Faccio schifo. Faccio schifo. Faccio. Schifo.

Il vestito incriminato. Lo so, reato di SHEIN

Rispetto a quando son cresciutə, ora è più facile trovare persone non binarie nel piccolo o grande star system. Ogni volta che ascolto un brano di Blue Foster, per dire, mi viene da piangere mentre penso: “Perché non potevo cantare IDK if I’m a boy quando ero piccolə?”.

La maggior parte delle star enby AMAB ha corpi asciutti, privi di pelo. Penso al pantheon Tik Tok: Jeffrey Marsh, Ty Deran, Matt & Omar. Personalità che riescono a esprimersi in modo versatile perché i loro corpi si avvicinano a quell’idea di androginia dove il mondo sembra voler collocare l’identità non binaria. E io sono qui, bassə e cicciottə e pelosamente scimmiescə, e non posso che fare schifo.

non binary doesn’t owe you androginy. È una frase che mi piace perché ricorda da dove parte il problema: le persone non binarie non ti devono alcuna androginia. A te, a te che guardi. Alla collega che incontro per la prima volta dal vivo lunedì dopo due anni di pandemia, e mi dice che sto male se mi trucco e faccio “le cose strane”. A tipi che mi prendono in giro alla fermata del bus perché ho lo smalto. A chi ha raccontato per decenni nelle serie televisive e nei film personaggi di genere non conforme dipingendoli come mostri inquietanti. Ogni volta che penso a quel vestito son certə che se lo indossassi, qualcunə per strada mi assocerebbe a Buffalo Bill o Norman Bates. E la cosa peggiore è che ci penso io per primə. Mi guardo allo specchio e non mi vedo più, vedo solo il mostro. Metto il vestito nell’armadio, e mi autocensuro.

Scrivere la scena di Pallinə con Laura la sera di Halloween per me è stata una forma di power fantasy, perché quella cosa ancora non me la sono concessa. So cosa ho provato il momento in cui ho indossato quel vestito per la prima volta: mi son vistə. Per la prima volta ho visto la persona che son sempre stata. Ma poi è arrivato Buffalo Bill, è arrivata la collega e i commenti che, senza malizia, amicɜ e familiari hanno fatto per una vita, e tutto è rifinito nell’armadio.

Prendo respiro.

Condividere queste cose mi sta richiedendo uno sforzo immenso. E visto che sono una persona che tende a prestare attenzione al peggio del mondo online, in me c’è già un’altra voce (che nella mia testa è quella di un sedicente filosofo il cui nome d’arte somiglia a Tper) che mi sta dicendo che sto solo cercando attenzione, che questa faccenda è figlia della cultura del lamento che imperversa da anni e porterà alla rovina del mondo.

E un po’ come la collega vince quando voglio mettermi un vestito, Tper vince quando voglio parlare di queste cose. Perché questo post volevo farlo già una settimana fa, quando durante la LudoNarraCon Kim Belair e sua divinità Meg Jayanth hanno parlato del “piccolo uomo bianco” che è dentro le loro teste, che le ha spinte a scrivere per anni di storie che non parlassero della loro, di esperienza, come donne e come persone razzializzate.

A tutto ciò che ha fatto loro credere che una storia che non parla di uomini bianchi non sia una storia seria. Che se metti te stessa nella tua diversità dentro una storia allora sei egoista, indulgente con te stessa, non interessante per la maggior parte delle persone.

Man mano che le ascoltavo mi dicevo “Sì, è questo! Voglio condividere questa cosa, dire a qualcunə che è importante parlare di sé anche se non è un maschio bianco cisetero!”. Ma poi Tper è arrivato, ha vinto, e l’idea del post è finita da qualche parte dietro al cuore.

La piccola salvezza è stato l’ultimo podcast di Indie Comune, dove erano ospiti Damiano D’Agostino e Ilaria Celli. Dopo un insieme di cose molto intense, Ilaria dice: “se tu non ti vedi [all’interno di un medium], tu non ci sei”.

E son stancə di non vedermi.

Owof fa giochi, fare giochi è una cosa lunga, e invece vorrei cambiare tutto subito, averlo fatto già ieri. Lɜ nostrɜ due Pallinɜ ci vogliono provare, ma è come lanciare un sasso su Giove.

Parlare della difficoltà di scriverne, di parlarne è però altrettanto importante. Lɜ attivistɜ che vediamo in giro spesso sembrano dellɜ superoinɜ indistruttibili, e tu stai lì e ti dici: ma come fa questa persona a parlare apertamente di cose così dolorose sorridendo? Sono davvero un fragile fiocco di neve allora?

Penso al momento in cui Fumettibrutti ha parlato pubblicamente di alcune sue esperienze dolorose, e a come questa vulnerabilità si sia stesa su di me come un ombrello: se qualcuno che ammiro non è invulnerabile, allora posso esserlo anche io.

Non sono/siamo Fumettibrutti, non siamo ammirabili. Ma le figure che compaiono nel finale di non-binary sono persone comuni, che nemmeno conosciamo. Sono lì a fare il loro, ma per il solo fatto di farlo, di essere così sé stesse ci aiutano a non sentirci solə, ci fanno sentire finalmente forti.

Ci aiutano a fare un respiro, e cancellare la collega dalla nostra testa, a zittire i signori Tper.

Nel nostro piccolo possiamo farlo coi giochi che andremo a creare, e con le voci che cercheremo di condividere, di mettere in evidenza. Mi farebbe piacere con l’estate provare a ragionare sull’idea di un manifesto, di qualcosa che parli di un nuovo modo di fare videogiochi sull’onda dell’ultima Manifesto Jam (sì, questo è un invito aperto a ragionarne assieme).

Perché quando Tper nella mia testa è stanco di urlare, mi rendo conto di una cosa: che le cose che voglio condividere non sono parole dettata da un’ipotetica cultura del lamento.

È cultura della rabbia, della rabbia sana di chi è stancə di vedersi cancellatə costantemente. Di chi non può ritrovarsi in modo rispettoso dentro i media. Di chi deve vivere il doppio delle vite degli altri, perché per essere felice con sé stessə deve cancellarsi di dosso i pregiudizi con cui l’hanno soffocatə.

E sono sicurə che tutto sommato i signori Tper questa cosa la sanno, e hanno paura: perché se sappiamo che non siamo più solɜ, niente ci può fermare.

Tremate, tremate, le frociɜ sono tornate.

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